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LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO - QUALI LIMITI PER IL DATORE DI LAVORO?

  • 06/10/2023

L’art. 3 della L. 604/1966 stabilisce che il giustificato motivo oggettivo del licenziamento consiste in ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa.

Ai sensi dell’art. 5 L. 604/1966 l’onere della prova della sussistenza del giustificato motivo oggettivo, che deve essere specificato nella stessa comunicazione di licenziamento, è posto a carico del datore di lavoro.

Affinché sia configurabile un licenziamento per giustificato motivo oggettivo è necessario che ricorrano contemporaneamente acuni requisiti, quali:

A) una riorganizzazione aziendale effettiva e concreta che determini la soppressione di uno o più specifici posti di lavoro (come la chiusura di un ufficio o di un reparto o la stessa cessazione dell'attività di impresa);

B) il nesso di causalità tra l’esigenza aziendale che determina la soppressione dello specifico posto di lavoro e il licenziamento di quel certo lavoratore;

C) l’impossibilità di ricollocare il lavoratore adibendolo a mansioni equivalenti o, in subordine, di livello inferiore, cioè di attuare il c.d. repêchage (requisito questo di elaborazione giurisprudenziale).

IL CASO AFFRONTATO

Una lavoratrice ha impugnato il suo licenziamento avanti  il Tribunale di Mantova, Sezione Lavoro, ritenendolo illegittimo poichè la società datrice di lavoro non le aveva prospettato, in alternativa al licenziamento, una diversa mansione, anche inferiore a quella svolta, oppure una riduzione dell'orario di lavoro.

LA SENTENZA DEL TRIBUNALE DI MANTOVA

Il Tribunale di Mantova, Sez. Lavoro, con la sentenza n. 122 del 17 luglio 2023 (a questo link), aderendo alla giurisprudenza maggioritaria, ha ritenuto illegittimo il licenziamento poichè era stato intimato per giustificato motivo oggettivo, senza che nessuna offerta di diverso reimpiego, anche ad altre mansioni, fosse stata proposta alla ricorrente.

Non solo: la società resistente aveva mantenuto in servizio impiegati amministrativi che avevano minore anzianità di servizio, senza quindi rispettare i criteri di scelta nella individuazione dei dipendenti da licenziare per giustificato motivo oggettivo ricavati  dall'interpretazione analogica fornita dalla L. n.223/91.

Sulla scorta di tali argomenti ha condannato la società datrice di lavoro al risarcimento del danno in favore della dipendente ed al pagamento delle spese legali.

CONCLUSIONI

La natura di "estremo rimedio" del licenziamento impone al datore di lavoro un onere probatorio ulteriore  rispetto all’effettività della ragione economico-organizzativa e al nesso causale, costituito dall’impossibilità di ricollocare il lavoratore all’interno dell’organizzazione aziendale.

Il lavoratore, la cui mansione sia stata soppressa, deve tendenzialmente essere adibito a mansioni equivalenti, cioè diverse ma rientranti all’interno dell’inquadramento contrattuale a lui spettante.

Tuttavia, nel caso in cui nell'organizzazione aziendale non sussistano o non siano disponibili mansioni equivalenti, il lavoratore potrà essere destinato anche a mansioni inferiori al suo livello di inquadramento, coerentemente con la preferibilità di un demansionamento rispetto al licenziamento (c.d. demansionamento conservativo), ai sensi dell'art. 2103 c.c., come novellato dal D. Lgs. 81/2015 (nell'ambito della riforma conosciuta come Jobs act).

Il datore di lavoro, inoltre, deve giustificare, in concreto, in applicazione della regola di buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c., la scelta del lavoratore da licenziare tra quelli occupati in posizioni di piena fungibilità: secondo il diritto vivente la scelta deve avvenire in conformità ai criteri previsti per l’individuazione dei lavoratori nei licenziamenti collettivi dall’art. 5 L. 223/1991 e, dunque, ai criteri individuati dalla contrattazione collettiva, in assenza dei quali si deve far riferimento ai carichi di famiglia ed all’anzianità di servizio.